22/03/2016

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Oggi è un giorno nero.
Gli avvenimenti che si sono succeduti nell’arco della mattinata ne sono la ragione.
Ho seguito l’avvicendarsi con ansia augurandomi che ci fossero solo feriti a Bruxelles.
Non ho potuto fare a meno di leggere notizie, e commenti, su Facebook. E mi sono ricordata anche perché sto maturando l’idea di disattivare l’account.
Proprio su come ho vissuto questa giornata, tramite social, voglio lasciare qui le mie considerazioni. Non perché senta la necessità di convincere qualcuno. Solo perché questo, in fin dei conti, è il mio personale muro del pianto. È lampeggiante, il muro. Offre un segnale ben visibile a amici e conoscenti che non potrei avvertire contemporaneamente di un momentaneo “disservizio della comunicazione”. Quando qualcosa mi fa stare male, la voglia di comunicare è a livello zero. Se scompaio è peggio perché arrivano messaggi e…


Insomma, meglio appoggiare la testa al mio muro, fidatevi. E piangerci un po’ sopra. Come ora che sento il cuore strizzarsi e torcersi. Verranno da lì le lacrime.

Oggi l’avvicendarsi degli eventi è stato veloce, come qualsiasi aberrazione dello stesso genere. Notizie, bufale, smentite, interviste.
Il Guardian che dà voce a Kristof Clerix, è uno dei pochi articoli che ritengo davvero valido. Il giornalista ricorda che le radici delle varie organizzazioni terroristiche in Belgio risalgono a un ventennio fa e analizza cinque motivi per rispondere alla domanda “perché il Belgio?”

Ora… L’analisi di Kristof Clerix, che non parla a vanvera come tanti giornalisti nostrani, mi ha abbastanza colpito. Ma ancora dovevo comprendere le mie stesse riflessioni, perché c’era da oltrepassare il fuoco dei social. Soffermarsi su tutto ha il tipico andamento lento di ogni stillicidio social.

I commenti di cordoglio andavano di pari passo con quelli pieni di odio. A un certo punto ho deciso di intervenire. Non perché avessi voglia di fare polemica (proprio oggi no). Solo perché l’odio degli altri mi blocca la gola. Non respiro.

Qualcuno, dalla sua pagina, urlava: basta alla retorica della guerra, con conseguente sventolare di bandiera belga nel profilo e i vari je suis, oltre che sto con quello o con l’altro…

Sono molto rispettosa nei confronti della libertà personale altrui. E proprio in virtù di questo, ho anche amici e conoscenti che hanno idee diametralmente opposte alle mie. Come nella fattispecie.
Infatti, dopo l’urlo, l’arringa. Riassumo:
NO al dialogo, ai finanziamenti alla Turchia, niente occhi dolci agli immigrati, alle politiche di integrazione, alla migrazione, al libero scambio.
SÌ alla limitazioni alla libertà personali, moschee chiuse, espulsione di cittadini irregolari e migranti, quartieri e città con concentrazione di una sola etnia rase al suolo, voli aerei verso paesi coinvolti con l’ISIS cancellati, bombardamenti NATO, esercito europeo e armate varie su Libia, Siria, etc., interrompere l’entrata della Turchia nell’UE…
L’intervento si concludeva con: tutti la pensate come me ma mi direte che sono estremista.
Non ce l’ho fatta. Ho dovuto rispondere, con un pacato: no, io non la penso così, e credo che questo genere di esternazioni abbia più un orientamento nazista che estremista.
Come avviene spesso nei social, lui ha capito le mie intenzioni (il mio era un: alt, attenzione, fermati a ragionare, tutto questo è già accaduto!). I suoi amici no. Uno in particolare ha iniziato a darmi addosso. In definitiva, sarebbe per gente vigliacca come me che il terrorismo prende piede e trova terreno fertile, concimato dagli escrementi delle mie idee.
Io: prima o poi finiremo entrambi a concimare la terra, io con il mio lavoro attivo tra bambini, tu con le tue idee evidentemente più valide delle mie.
Nonostante il proprietario della pagina invocasse toni più civili perché siamo tutti dalla stessa parte, il suo amico sosteneva che no, che i nemici sono anche quelli che fanno il “loro” gioco. Cioè io, e chi come me.
A quel punto, con modi civili ho lasciato stare la cosa (perché non era uno scambio di idee ma solo un modo come un altro per dare sfogo alle proprie repressioni).

Per un po’ sono rimasta in silenzio.
Non perché mi avesse ferito il tipo. So bene che dietro una tastiera tutti si sentono forti. So bene di non essere vigliacca, piuttosto sono impulsiva e mi è capitato di rompere nasi di super uomini. Non sono nemmeno un animale.
Non sono un animale, infatti.
Perché sta tutto lì, in fondo, il nocciolo della questione. L’essere animale (che non ha l’accezione naturalistica del regno animale, ma solo quella spregiativa tipicamente umana) l’essere animale che è dell’ignorante.
E ho paura.
Perché gli ignoranti mi fanno molto più paura dei terroristi: sono i primi a formare i secondi.

Mi sono sentita… smarrita.
Un amico ha citato Pessoa e mi sono ritrovata lì dentro: “avendo visto con quale lucidità e coerenza logica certi pazzi giustificano a se stessi e agli altri, le loro idee deliranti, ho perduto per sempre la sicura certezza della lucidità della mia lucidità”.

Poi un altro amico mi ha riferito la risposta di un sopravvissuto alla strage oggi. Alla domanda: “cosa ne pensa di questi terroristi arabi?”, lui ha risposto: “non conosco terroristi arabi, solo terroristi”. Era appena scampato al finimondo. Eppure era lucido.
Io mi sentivo meno smarrita.

E infine, ho visto una foto condivisa da Gianluigi Ricuperati sulla sua pagina Facebook.

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A questo punto mi sono fermata e sono andata a ritroso nella giornata così come ho fatto ora.

Sì, in effetti sono d’accordo con l’analisi di Clerix. Tra l’altro considero alcuni dati molto importanti: più di 250 belgi hanno lasciato il paese per unirsi ai jihadisti in Syria e in Iraq (75 morti e 125 hanno fatto ritorno); il Belgio ha un tasso elevato di foreign fighters e un alto tasso di disoccupazione (25%). Coloro che hanno radici islamiche non hanno le stesse possibilità di lavoro rispetto ai coetanei belgi.
Bypasso le varie teorie di haters e di politici (o sciacalli?) che prevedono una pulizia etnica.
Ripenso a Pessoa.
Ricordo la frase del sopravvissuto.
Riguardo la foto.
E capisco.
In fondo, tutto è come l’opera di Marcel Broodthaers. Ricuperati la condivide non a caso (l’artista è un belga) e la dedica “a quelli che con l’idiozia dei distinguo da bar impediscono di capire che (pur nella grandiosa quantità di sottocategorie) al mondo esistono due generi fondamentali e contrapposti di umani: quelli che si adoperano per fare patatine e quelli che si adoperano per bruciarle”.
Un piatto di patatine le prepari con amore perché sei tu che le assaporerai, le offri, le condividi; puoi prepararle per lavoro e non considerare affatto l’altro che le mangerà; puoi anche carbonizzarle. Ma se le riproduci come Broodthaers stai lanciando un messaggio. Forte e chiaro.

Il nostro compito è preparare il terreno adatto a ricevere questi messaggi. Poi c’è chi li comprenderà, chi no. L’importante è che ci siano. Anzi, deve esserci un bombardamento di arte e cultura. Solo questo tipo di attacco. Solo questa guerra.
Perché i terroristi li stiamo armando noi. Li abbiamo cresciuti noi.
Perché ogni bimbo (occorre che specifichi anche i figli di immigrati?) hanno dentro di loro qualcosa di potenzialmente meraviglioso. È pura luce. E traspare dai loro occhi, ancora sinceri, pieni di aspettativa e speranza. Nella scuola primaria è così. Poi qualcosa… cambia, li fa cambiare. Iniziano a accumulare un mare di emarginazione da dover contenere, un oceano di razzismo ignorante da digerire. Quelle patatine fritte diventano piombo. Si rigettano.
Dobbiamo dar loro la forza sufficiente per riuscire a dare spazio a questa luce. Non fare di tutto perché si spenga.
Quando comprenderemo che i veri nemici siamo noi stessi, che le guerre non scoppiano dall’oggi al domani, che NON è il terreno MA i semi che si piantano, sapremo anche riconoscere che solo l’ignoranza è la vera piaga dell’umanità.
Poi, tutti, stupidi e intelligenti, buoni o cattivi, andremo a concimare la terra. Sta a vedere poi se da essa nasceranno fiori o sarà ricoperta di carbone.
Se dovesse verificarsi la seconda ipotesi non ci sarà nessuno a friggere patatine, perché nessuno più potrà mangiarle.

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