Scritto nel 1951 Il giovane Holden risulta un libro attuale e sempre molto discusso.
L’ho scoperto diversi anni fa, quando leggere significava immettermi in una storia e vestire i panni del protagonista sfuggendo dalla realtà (non sempre in senso negativo eh?). Poi quel processo empatico è andato trasformandosi fino a condurmi verso sentieri che ancora sto esplorando. Si tratta quindi dell’ennesima rilettura.
Recentemente mi sono regalata la nuova edizione dell’Einaudi con la traduzione di Matteo Colombo (consigliatissima!) e ne ho apprezzato le sfumature linguistiche sebbene la versione originale sia per ovvi motivi la scelta migliore.
Spero mi perdonerete in anticipo perché parto adesso a scrivere come al solito di getto: ho molto da dire, non so dove arriverò, tanto meno quando.
Parto dall’incipit: “Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne.”
Ricordo la mia primissima impressione: era, secondo me, la classica entrata a gamba tesa del ragazzo insolente che stava per sputare un bel quantitativo di veleno su diversi argomenti (perciò mi misi comoda a leggere). Oggi ci vedo di più, forse perché mi siedo scomodamente dalla parte di chi un libro vuole trovarci qualcosa che non siano effetti speciali scopiazzati di qua e di là. Oggi ci vedo una frecciata ben assestata da parte di Salinger in direzione della letteratura tradizionale: il centro è il genere autobiografico.
Ha ragione chi dice che la storia è senza trama, a tratti inconcludente, frammentaria, costruita su episodi banali e tra l’altro scritta con un linguaggio alquanto povero. Si dipana lungo un week end prima di Natale. Holden viene espulso dalla Pencey e decide di andare a New York senza dire nulla ai suoi genitori. Nell’arco di quasi quattro giorni attraverserà situazioni assurde e il lettore attraverserà la sua mente instabile, volubile, ribelle.
Eppure proprio nella trama, nella sua banalità, risiede la grandezza del libro, o meglio dello stile unico e inconfondibile di Salinger.
L’autore decide di vestire i panni di un ragazzo: è così costretto a esprimersi nel gergo di un piccolo e insolente newyorkese che apparentemente non sa nulla della Letteratura e men che meno è in grado di comprendere gli ornamenti voluttuosi delle metafore che la rendono preziosa e alta. È di Salinger quell’atteggiamento insolente di chi disprezza l’ostentata eleganza, la mondanità dell’intellettuale che arriccia il naso e poi non riesce a vedere oltre la sua punta, disprezza la cultura del suo tempo così pregna di gente che sa esprimersi correttamente, che si appropria di modi di dire, pensieri, parole e crede di essere originale, anche migliore di altri e di sicuro sa scrivere (che poi copi stili e immagini di un autore è un altro paio di maniche). È solo suo il merito di avermi fatto comprendere quanto si possa nascondere in un testo. Tutto ciò che dice Holden sta appena sulla superficie dell’acqua (penso, ad esempio, alla sua gelosia nei confronti di George) e tutto ciò che si legge nel libro non è mai scritto in modo esplicito. Ma su questo aspetto tornerò in seguito perché ho parlato di “panni stretti” e mi va di analizzare la struttura dell’intero romanzo perché… ogni tanto mi gira così.
Sappiamo che la narrazione è in prima persona, il genere è lo skatz, meraviglioso esempio di un linguaggio parlato: lessico e sintassi hanno il tratto caratteristico del colloquio, e soprattutto l’identica spontaneità. Eppure Holden non fa un resoconto scritto del suo week end e della sua vita, pur parlandone in modo da coinvolgere il suo lettore. È come ascoltare lo sproloquio logorroico del tipo che incontri alla fermata dell’autobus, quello che non ha bisogno di sguardi o cenni di consenso per andare avanti nel racconto della sua vita (che è sempre poco interessante) e che crede di dialogare e invece fa un noioso monologo. Salinger però non fa una registrazione di un colloquio e poi lo trascrive fedelmente: noi sappiamo bene che un lavoro di questo tipo risulterebbe incomprensibile e paradossalmente falso. No. Salinger crea l’illusione e lo fa con l’elaborata eleganza e meticolosità del cesellatore che conosce così bene la materia che sta plasmando da poterlo fare a occhi chiusi. Nelle sue mani anche una banale crisi adolescenziale diventa un’illusione potente e l’effetto è una deflagrante autenticità: la storia risulta vera. È vera.
L’intero libro è pieno di ripetizioni: i sinonimi avrebbero rimandato il lettore a una lingua scritta, frutto di ragionamento, e quindi sarebbe venuta meno l’autenticità del pensiero. L’iperbole regna sovrana e i neologismi più assurdi le fanno allegramente compagnia. La sintassi è molto semplice e le frasi brevi per lo più formulate in modo scorretto e col verbo inesistente. Le frasi più lunghe non sono mai subordinate ma tipico esempio della forma colloquiale. E poi c’è una cosa fantastica: il discorso informale di Holden si contrappone alla pomposa pregiudizialità dei discorsi diretti che riportano le chiacchiere della gente. Bella distanza prende Salinger dal pensare comune eppure io ci sono arrivata dopo diverse letture a questa conclusione.
Holden è inquieto, tutto preso a imitare i comportamenti corrotti degli adulti del suo tempo.
Salinger è inquieto, eppure parla attraverso il suo personaggio di ciò che sente del mondo di fuori e del mondo di dentro. E lo fa con delle trovate banali come quella domanda che ritorna spesso su dove vadano a finire le anatre di Central Park. È un pensiero che Holden si rivolge e rivolge ai personaggi che incontra. Eppure conosce bene la risposta: a un certo punto del libro dice che volano in paesi più caldi. È così, lo sappiamo bene che è così. Eppure ritorna spesso. Come quelle domande che ci facciamo, magari con forme diverse: chissà che fine ha fatto il mio primo amore, e quell’amico stronzo che mi ha fatto così male? E chissà se – primo amore e amico stronzo – sono seppelliti sotto al ghiaccio di un laghetto simile a quello di Central Park o alla fine sono volati anche loro. Io in questa domanda ripetitiva di Holden ci vedo il ghiaccio dell’indifferenza, la volatilità di certe decisioni (e quindi sentimenti e emozioni) che sgravano la coscienza di diversi pesi ma che vanno a intaccare anche il nostro sentire. È facile darsi delle giustificazioni e scegliere la via facile, poi però non lamentiamoci se non riusciamo più a cogliere la Bellezza delle cose. Sta lì, sotto al ghiaccio quella capacità. O è andata a scaldarsi altrove.
Potrei restare a scrivere per ore di questo libro, di come sia libero Holden e di quanto non lo sia affatto Salinger che pure è Holden, di come lo skatz abbia lo stesso ritmo del jazz e leggere risulta così dannatamente facile… Potrei starci per ore. Ma preferisco finirla qui e con una sola convinzione: questo libro può anche non piacere ma di sicuro va collocato mentalmente nel contenitore delle opere importanti. Con questo libro si dà il via alla letteratura moderna americana e senza Salinger non ci sarebbe stato Amis (l’avete letto Money? Fatelo. È stato scritto trent’anni dopo…) e tutti quelli che adesso vanno tanto di moda.
Io adesso mi sto disintossicando dalla letteratura moderna americana. Sono passata a quella francese e tedesca più che altro perché satura di leggere in giro parole fritte di critiche che non osano mai levarsi dalla massa, di èlite composte da intettualoidi che scrivono ricalcando stili altrui e che non dicono nulla. Sono un po’ stanca di parole farcite al gusto di niente. Forse per questo mi piace Holden: mi ritrovo sempre con quel male di vivere e con l’incostanza, la paura, di fermarmi davvero in un luogo. Troppi laghetti ghiacciati in giro. E io amo il caldo.
Anche se sto cercando di disintossicarmi dalla letteratura americana, di Holden ho un’immagine precisa. Lo vedo muoversi nervoso e inquieto, lo vedo alto e dinoccolato come tanti adolescenti, lo vedo sfuggente. Nel colore dei suoi capelli precocemente grigi “leggo” un messaggio dell’autore. Holden è già vecchio. Questa la sua inquietudine. La ragione della sua rabbia è quella costante ricerca di verità che tutti gli negano, a eccezione di Phoebe che ancora non ha le sovrastrutture mentali degli adulti. Nella sorellina vedo la chiave di lettura più importante: lei è l’unica persona sincera che gli parla senza un secondo fine, senza doppi sensi, e soprattutto senza giudicarlo. E lui che fin dall’inizio dice di essere un gran bugiardo spiega le ragioni della sua rabbia a Sally a un certo punto parlando della Pencey: “E’ pieno di palloni gonfiati, e non fai altro che studiare, così impari quanto basta per essere furbo quanto basta per poterti comprare un giorno o l’altro una maledetta Cadillac, e devi continuare a fare la commedia che ti strappi i capelli se la squadra di rugby perde e tutto il giorno non fai che parlare di ragazze, di liquori e di sesso e tutti fanno lega tra loro con quelle piccole e sporche maledette cricche“.
Holden non vuole indossare maschere, fa ciò che si aspetta da lui la gente (come quando incontra in treno la madre di un suo compagno, Ernest Morrow). E se in un primo momento avevo visto in questo suo atteggiamento incoerenza, codardia – è lui stesso a riconoscerla in sé – quella voglia di compiacere a tutti i costi, di imitare gli adulti, di essere uno di loro… poi ho capito che si tratta solo della sua capacità di vedere oltre.
Lui è in grado di vedere oltre le vetrine, attraverso gli oggetti esposti. Il suo sguardo entra nei retrobottega per farci vedere il disordine, o più semplicemente un altro ordine delle cose. Lui vede un altro ordine delle cose. È l’ordine di chi ha una diversa sensibilità. Non di chi ha paura di crescere, di chi è disadatto, di chi è asociale. È il suo vedere dentro che è diverso e che la società non può accettare. Non è un caso che solo Phoebe sia l’unica a “saper” parlare con lui: come dicevo prima, la sorellina è priva di sovrastrutture mentali, è vera. Proprio come lui, lui con tutte le sue bugie. Sembra un controsenso, lo so. Eppure quando descrive il guantone di Allie e mi porta fin dentro le più piccole pieghe di pelle e mi fa seguire i ghirigori della penna, lì comprendo come sia profondo il suo sguardo e come a differenza di molti comprenda la Bellezza della letteratura. È un dono prezioso questo è come tale va protetto: Holden lo protegge con una coltre di bugie.
Alla fine sceglierà di andare in psicanalisi. E anche in questa sua decisione ci vedo più di quello che appare. Non è il riconoscimento da parte sua di essere “sbagliato” per la società in cui vive, il volersi allineare per forza di cose agli altri, è solo la voglia di trovare i mezzi per proteggersi e proteggere il suo dono, per restare in mezzo agli altri.
Perciò l’inquieto Holden è libero, mentre l’inquieto Salinger non lo sarà mai fino alla fine dei suoi giorni. Lo scrittore sceglierà di vivere rintanato nella sua casa e di chiudersi completamente al mondo. La sua “vista” ce la regala con questo capolavoro. A Holden dà la possibilità di costruirsi una corazza per poter camminare tra la gente senza esserne ferito. Che alla fine si intuisca una vita breve non ha poi molta importanza. Meglio vivere intensamente che non vivere affatto.
Queste le mie impressioni di lettrice. Vi lascio con tre consigli:
1) acquistate la traduzione di Matteo Colombo, ne vale la pena.
2) Leggete due saggi: In cerca di Salinger di I. Hamilton, e Il giovane Salinger di R. Giachetti. Talvolta, per alcuni libri, si ha bisogno di andare un po’ più in profondità.
3) Continuate pure a consigliare questo libro a chi si trova nella fase di passaggio dell’adolescenza ma chiedetevi anche perché ancora oggi c’è gente che scrive tesi, saggi, si ferma a ragionare su ciò che Salinger nasconde e non tutti sono in grado di cogliere.
Boa vida ^_^