Tra i libri indispensabili da leggere va collocato sicuramente “Il libro dell’inquietudine” di Fernando Pessoa.
A me è stato consigliato molti anni fa da un amico, che non ringrazierò mai abbastanza. Adesso rigiro il regalo che mi ha fatto a chi si sente inquieto, a chi si interroga sulla vita e sulle emozioni, ma anche a chi coltiva il sogno di diventare scrittore o a chi semplicemente ama leggere qualcosa di eccezionale. Un’unica avvertenza, però: Pessoa è un autore che va centellinato. Se volete leggere questo libro d’un fiato, non arriverete nemmeno in fondo alla prima pagina.
Fernando Pessoa è il primo portoghese inserito nella Pléiade (Collection Bibliotèque de la Pléiade), che gli addetti ai lavori riconosceranno senz’altro come la collezione francese più prestigiosa di grandi nomi della letteratura.
Barbosa, poeta e critico brasiliano, parla dell’autore come di un “enigma in persona”, definizione quanto mai adatta e che si comprenderà meglio traducendo il portoghese “pessoa” che significa appunto “persona”.
“Il libro dell’inquietudine”, pubblicato in Portogallo per la prima volta nel 1982, è un’opera in prosa definita dalla critica il più bel diario del ‘900. È composto da frammenti di diario, una sorta di “autobiografia senza fatti” (cit. Soares) che interroga l’oscuro universo dell’anima in movimento nella realtà sensibile. Si tratta solo di una parte dei 27 mila testi conosciuti di Pessoa rinvenuti otto anni dopo la sua morte dentro a un baule di biancheria: poesie, frammenti, sequenze di racconti (come quelli filosofici ed esoterici, miste a novelle poliziesche di “Racconti dell’inquietudine”).
Bellissima è anche la prefazione scritta da Antonio Tabucchi, traduttore e conoscitore dell’autore portoghese:
“Pessoa non è tanto un poeta quanto un drammaturgo che usa la poesia; non è tanto un drammaturgo quanto un poeta che usa il dramma; non è tanto un romanziere quanto un poeta e un drammaturgo che usa il romanzesco.”
Il protagonista del libro è un contabile di Lisbona, Bernardo Soares, che diventa anche il “contabile” delle sue stesse annotazioni diaristiche. Con precisione maniacale scrive della vita che spia attraverso una finestra. Osserva una vita esterna e reale, mentre si sviluppa dentro di sè una vita interiore e inventata: entrambe costituiscono luoghi completamente ignoti per l’unico abitante.
Bernardo è taciturno, inquieto e solitario, impiegato di concetto proprio come l’autore. Pessoa assegna al suo personaggio il compito di scrivere un diario: il suo. Questo fa del libro un romanzo doppio.
Tutta l’opera di Pessoa è pervasa da una sensibilità che definirei sciamanica. Egli parla della sua mente come fosse popolata da “inquilini sconosciuti, presenze di un altrove che si trova dentro di sé: si tratta degli eteronomi, proiezioni del suo pensiero, quasi individui e diversi da lui.
“Sentire tutto in tutte le maniere, / vivere tutto da tutti i lati, / essere la stessa cosa in tutti i modi possibili allo stesso tempo / realizzare in sé tutta l’umanità di tutti i momenti / in un solo momento diffuso, profuso, completo e distante”.
In questo dialogo con gli “inquilini sconosciuti” Pessoa rischiara le ombre che inquietano la sua mente, evocate come medium in modo da diventare “non tanto uno scrittore quanto un’intera letteratura”.
Gli eteronimi sono figli, fratelli e nello stesso tempo, maestri di Pessoa. Sono stati censiti circa una cinquantina, ma per alcuni sarebbero addirittura più di settanta. Si tratta di una folla che affiora da un continuo gioco di autofecondazioni, reincarnazioni, dissociazioni. Ciascuno ha una propria dimensione, che interferisce con quella degli altri. Hanno fisionomie fisiche, stili, idee politiche e morali, schede anagrafiche, professioni, biglietti da visita, fobie e anche segni zodiacali differenti.
Tutto passa attraverso immagini fulminee, inebrianti, anche quando sono inesorabili, “nude”. Esplicativa questa riflessione dell’autore:
“ Quello che ci circonda diventa parte di noi stessi, si infiltra in noi nella sensazione della carne e della vita. Un raggio di sole, una nuvola il cui passaggio è rivelato da un’improvvisa ombra, una brezza che si leva, il silenzio che segue quando essa cessa, qualche volto, qualche voce, il riso casuale fra le voci che parlano: e poi la notte nella quale emergono senza senso i geroglifici infranti delle stelle. Alla fine di questa giornata rimane ciò che è rimasto di ieri e ciò che rimarrà di domani; l’ansia insaziabile e molteplice dell’essere sempre la stessa persona e un’altra.”
In questo libro troverete disperazione e lucidità portate entrambe all’estremo. L’Io che sorveglia l’Io, a volte nell’impossibilità di vivere, di lasciarsi andare, di dimenticarsi.
“All’improvviso oggi ho dentro una sensazione assurda e giusta. Ho capito, con una illuminazione segreta, di non essere nessuno. Nessuno, assolutamente nessuno. Nessuno mi ha riconosciuto sotto la maschera dell’identità con gli altri, né ha mai saputo che ero maschera. Nessuno ha supposto che al mio lato ci fosse sempre un altro che in fondo ero io. Mi hanno sempre creduto identico a me stesso.
Tutti noi viviamo distanti e anonimi; dissimulati, soffriamo da sconosciuti. Ad alcuni, però, questa distanza fra loro stessi e un altro essere non si rivela mai; per altri è talvolta illuminata, di orrore o di pena, da un lampo senza limiti; per altri ancora, essa non è altro che la dolorosa costanza e quotidianità della vita.
Sapere esattamente che chi siamo non ci riguarda, che ciò che vogliamo è ciò che non vorremmo, né forse qualcuno ha voluto; sapere tutto questo a ogni minuto, sentire tutto questo in ogni sentimento, non significherà essere straniero nella propria anima, esiliato nelle proprie sensazioni?”
E anche:
“Sono in grande parte, la prosa stessa che scrivo. Mi snodo in periodi e paragrafi, mi trasformo in punteggiatura e nella sfrenata disposizioni delle immagini Sono, in gran parte, la prosa stessa che scrivo.
Mi snodo in periodi e paragrafi, mi trasformo in punteggiatura e, nella sfrenata disposizione delle immagini, come i bambini mi maschero da re con carta di giornale; oppure, ritmando una successione di parole, mi acconcio come i pazzi con fiori secchi che sono freschi solo nei miei sogni […]
I sentimenti più dolorosi e le emozioni più pungenti, sono quelli assurdi: l’ansia di cose impossibili, proprio perché sono impossibili, la nostalgia di ciò che non c’è mai stato, il desiderio di ciò che potrebbe essere stato, la pena di non essere un altro, l’insoddisfazione per l’esistenza del mondo.”
Ma Pessoa conosce anche la bellezza dell’essere:
“La mia anima è una misteriosa orchestra; non so quali strumenti suoni e strida dentro di me: corde e arpe, timpani e tamburi. Mi conosco come una sinfonia.”
L’anima brucia, l’anima spinge, è un animale in gabbia che ruggisce la sua libertà. È un diamante grezzo che ancora non rifrange la luce; sepolto nel magma delle inquietudini aspetta di essere portato in superficie. Inquietudini dalla dualità sospesa, mettono a nudo il malessere dell’Uomo, che lo àncora a terra, e la sua aspirazione d’Essere, che lo eleva al cielo, con la possibilità di risorgere sempre:
“Cancellare tutto dalla lavagna da un giorno all’altro, essere nuovo ad ogni nuova alba, in una nuova verginità perpetua dell’emozione…”
C’è molto altro ancora da dire su Pessoa, ma vi rimando ad analisi sicuramente più interessanti delle mie. L’ultima considerazione, però, voglio prenderla dal poema “Navegar é Preciso” e fornirla come spunto di riflessione a chi spera che il suo sogno di diventare scrittore si realizzi: “vivere non è necessario; quel che è necessario è creare”.
Il Maestro portoghese, chiuso nella sua camera, o seduto in una taverna, si schermava con la monotonia di un impiego che gli permetteva di vivere, ma riusciva a tenere fuori dalla mente ogni disciplina accademica con un imperativo che per me è divenuto fondamentale:
“Ubbidisca alla grammatica chi non sa pensare ciò che sente”.
Boa vida, pessoas!
Buona vita, gente!