Il libro si apre con una panoramica nella sala d’aspetto ginecologica. Luce e Pietro attendono il loro turno. Lei è alla 29ª settimana. Lui, per scaramanzia, indossa il maglione della laurea, lo stesso di quando ha proposto a Luce di vivere insieme, della prima ecografia del piccolo Lorenzo e di tutti gli avvenimenti importanti della sua vita. Solo che, quel giorno, i riti apotropaici servono a ben poco: durante la visita, la ginecologa si rende conto che il piccolo non è cresciuto affatto dalla 20ª settimana. Lorenzo ha una grave malformazione che condurrà i due protagonisti attraverso un viaggio di dolore. Il tema del libro è quello scottante e attuale dell’aborto terapeutico. Peccato che i protagonisti abbiano un bel lavoro e siano economicamente avvantaggiati: lei giornalista freelance, lui figlio di un industriale, in grado di fare la sua proposta di matrimonio come nelle favole: “Abbiamo parcheggiato la macchina in una zona del centro. Uno di quei posti dove il tempo sembra essersi fermato; con i sampietrini sulle strade, le botteghe artigianali, le piccole librerie antiquarie con testi introvabili. Un posto dove gli avevo detto più volte che mi sarebbe piaciuto abitare. Abbiamo vagato per un po’, apparentemente senza meta; poi, dopo aver imboccato un vicolo stretto, siamo entrati in un palazzo rinascimentale dall’antica facciata, con l’intonaco un po’ scrostato, le cornici marcapiano in travertino e le finestre centinate.” Certo, l’appartamento era ancora in fase di costruzione, col cemento dappertutto. Certo. Ma… “Quando Pietro ha sollevato il telo, ha svelato lo scenario impensabile di una cucina moderna, essenziale, appena montata. Una grande isola al centro, con il piano cottura elettrico e il doppio lavello in alluminio. Gli armadi di legno laccato color fucile, i ripiani di marmo bianco, come le lastre lisce e lucenti applicate sul pavimento. E poi, una pirofila di lasagne al ragù, forse comprata nella rosticceria accanto al portone, su un tavolino apparecchiato per due.” Peccato, ho detto prima, perché per Luce e Pietro, aggirano l’ostacolo della legge italiana che prevede l’aborto: il termine è fissato entro la 12ª settimana di gestazione, oltre questo limite, viene concesso a discrezione del medico e in presenza di gravi malformazioni del feto. In Italia, quindi, i due sono bloccati. Giacchè le possibilità economiche non mancano, volano a Londra, dove che io sappia (ma potrei anche sbagliare) il termine per l’aborto è fissato alla 22ª settimana. Anche qui aggirano l’ostacolo grazie ai soldi. Insomma, come dire che “anche i ricchi piangono” ma sanno asciugare le loro lacrime con fazzoletti di seta. La gente che vive in un monolocale, che arriva a stento alla fine del mese e che se aspetta un bambino con una grave malformazione non ha il diritto di porsi nemmeno di fronte alla scelta di abortire o ascoltare un “could” da un genetista inglese… questa gente ovviamente si attacca al fatidico tram, che poi si chiami “desiderio” e ci porti in un dramma di Williams – o nell’omonimo film – poco importa… Ecco, questa è una delle cose più eclatanti che mi ha dato noia nel libro e che non mi ha fatto entrare in quel processo di immedesimazione necessario ad assecondare la voglia di andare avanti nella lettura. Ho avvertito la storia, i personaggi, l’intreccio come qualcosa di patinato, falso e avvolto in una nebbia fitta. Che poi, se proprio devo andare a fondo alla questione, e lasciando da parte ciò che penso riguardo l’aborto terapeutico, mi pare che il tema portante sia stato trattato con superficialità. La Sparaco indica come malformazione del piccolo Lorenzo, la displasia scheletrica. Io so che, se è di tipo Greenberg, la diagnosi può essere avanzata durante l’ecografia prenatale della 20ª settimana, che in genere rivela polidramnios, idrope fetale, arti eccessivametne corti e igroma cistico. E poi, sempre in epoca prenatale, si possono eseguire altre analisi tramite villocentesi o amniocentesi. Ma la ginecologa di Luce alla 20ª settimana non aveva rilevato nulla, e nemmeno durante le successive ecografie. Se ne accorge giusto alla 29ª… Una cima insomma, come tanti purtroppo. Ma non per due che hanno i soldi e possono permettersi un ottimo ginecologo. Ok, d’accordo… molte anomalie scheletriche hanno penetranza tardiva e quindi ci sta pure che la cima di cui sopra non abbia avuto colpa ma… posso dire che tutta questa storia della malformazione è gestita male? A partire dalla reazione della stessa ginecologa, che mi sembra alquanto caricaturale, a finire alla malattia stessa che non si capisce fino in fondo che cosa sia esattamente e quindi non consente al lettore di operare la “sua” scelta, di entrare dentro al personaggio principale, comprendere il perché delle sue azioni. Anche il dare un nome al neonato – perchè perdonatemi ma alla 29ª settimana non si può parlare più di feto – conferisce già dignità di vita a un essere che in tutto il libro rimane un nome segnato lì, un’immagine piatta che non raggiunge il mio cuore, così come non lo raggiunge Luce e tanto meno Pietro, con tutto il suo maglioncino sfilacciato e intrecciato di scaramanzia. Eppure non sono priva di emozioni e se leggo è perché condivido il pensiero di Proust quando afferma che “la lettura si arresta alle soglie della vita spirituale; può introdurci in essa, ma non la costituisce” e tuttavia (sempre la lettura) diventa “pericolosa quando, in luogo di destarci dalla vita personale dello spirito, tende a sostituirsi a questa”. Con il libro della Sparaco non sono arrivata alle soglie del mio mondo fatto di emozioni e non ho avvertito alcun “pericolo”. Perché? Ho tentato di analizzare “Nessuno sa di noi” da un punto di vista strutturale. Tema e gestione dei personaggi, ho già spiegato, mi sembrano davvero poco efficaci, da un punto di vista simbolico oltre che realistico, sempre per la storia che tutto è fin troppo perfetto nella vita di Luce e Pietro che anche il loro dolore sembra avere il contegno e il distacco di chi usa i fazzoletti di seta e li getta via come se fossero kleenex. È scritto in prima persona, il che lascerebbe supporre che le emozioni della voce narrante siano messe in luce come quei fari che durante la notte ti accecano levando anche il respiro. Qui di “luce” c’è solo il nome della protagonista. Ciò che viene proiettato dai fari sono miseri giochi di colore che formano immagini trite e ritrite. Una su tutte: “Pietro è volitivo, pragmatico, al di là delle apparenze onesto in modo quasi infantile, romantico, otimista. Se lo penso gli aggetivi si inanellano in una sequenza logica ed esaustiva. L’incoerenza mi sorprende solo quando devo parlare di me. Non mi riconosco in nessuna definizione. Mi sento fluida, sempre sul punto di tracimare, un fiume inquieto che si disperde in mille rivoli. Gli altri li ho incrociati come calamità naturali: hanno provocato smottamenti, piccoli movimenti tellurici, vortici capaci di risucchiarmi. Ma Pietro è stato il primo a cambiare le cose. Il primo a costruire argini e a imporre una direzione al mio corso. Il primo che mi abbia fatto sentire solida: lo stampo dentro al quale ho trovato una forma.” Argine, fiume e stampo si mescolano nell’elenco delle virtù di Pietro mentre io, che leggo, mi sento invece “risucchiata” verso metafore che mi costringono ad uno stop: “Dal bagno, intanto, mi ha raggiunto lo scroscio della doccia. Ho immaginato il corpo nudo di Pietro reagire al contatto dell’acqua, disciogliersi come un’aspirina effervescente, e colare via in un rivolo schiumoso tra le fessure dello scolo. Di colpo mi sono scoperta esposta, vulnerabile. Qualcosa era riuscito a scalfire la superficie del gheriglio e stava macinando la polpa.” Ma per Chtulhu, l’affermazione dell’aspirina mi era davvero piaciuta! Poi mi sono inceppata su quel “gheriglio” che, per definizione, è la parte morbida di una noce, cioè commestibile, la “polpa” quindi. Forse allora “qualcosa era riuscito a scalfire il guscio, e stava macinando il gheriglio”? O forse è solo la sovrabbondanza di metafore che cozzano l’una contro l’altra, e mentre l’aspirina si scioglie sulla noce, io mi fermo perché il film che sto girando nella mia testa si è messo in standby e non trovo più la voglia di andare avanti? Mi armo di pazienza e coraggio. Dopotutto ho speso i soldi per acquistare il libro, é della Giunti, mica di una casa editrice qualsiasi, devo trovare le ragioni della selezione a una finale importante del Premio Strega… quindi proseguo nella lettura. La Sparaco mette il dito in un dolore e, oltre a immagini e figure retoriche che possono rendere immediate le emozioni, può aver utilizzato un ritmo narrativo ad hoc, mi chiedo… No. In tutto il libro, il taglio e il giro di frasi, i tempi verbali, la scelta dei vocaboli, la punteggiatura è identica dalla prima all’ultima pagina. Persino le lettere che scrivono i lettori per la rubrica di Luce e che spezzano i capitoli, sembrano essere prodotti tutti dalla stessa mano. L’impressione che ho ricevuto è che la soggettività della prima persona pervada anche quelle lettere proiettandomi in un mondo narrativo fazioso, relativo, filtrato solo dal personaggio che “parla”. Ma il problema è che la sua voce è monocorde, piatta, evanescente come una vecchia fotografia sbiadita di cui non comprendo i contorni e nemmeno mi va di immaginarli. L’intero linguaggio del libro sembra essere quello delle mail, degli scambi su Facebook o sui vari social: questa è un’osservazione che ho ritrovato in qualche buona recensione con la quale condivido alcune cose. Può essere che l’esatta intenzione dell’autrice prevedesse l’uso di un linguaggio da email, da social perché tutti ormai siamo abituati a comunicare così. E probabilmente, il suo obiettivo è quello di fermarsi a un lettore di primo livello, che desidera sapere solo come va a finire la storia. Perché il suo testo non si rivolge di sicuro a un lettore di secondo livello, “testo in cui la voce dell’autore modello fa appello in modo più esplicito alla collaborazione del lettore di secondo livello” [CIT. e definizioni di lettori di primo e secondo livello in “Sei passeggiate nei boschi narrativi” di U. Eco] Per sapere come vada a finire la storia – e tra l’altro non è che ci voglia molto – devo leggere il libro una sola volta – devo dire anche che se non mi fossi messa in testa di analizzare i testi del Premio Strega, nemmeno sarei arrivata alla fine? Di sicuro non mi trasformo in lettrice “empirica”, quella di cui parla Eco, che ha piacere di leggere e rileggere più volte la stessa storia per scoprire sempre qualcosa di nuovo, per affondare nelle trame della letteratura, per godere della bellezza che solo qualcosa di veramente ben congeniato e di talentuoso riesce a donare. Questa non è letteratura. E mi spiace, no… non basta scrivere di un tema lacerante per una donna, e per un uomo, come l’aborto terapeutico, per scuotere il lettore. O forse sì, giacchè in giro per il web ho letto diverse recensioni positive che definiscono il libro come “molto commovente”. Io sono del parere che sia invece molto superficiale, proprio perché rimane ” in superficie”. Non è un “lasciare sott’acqua”, quei “sette ottavi di ogni parte visibile”, di cui parlava Hemingway. No. Qui, ciò che non si vede, semplicemente non c’è. E si nota. L’unica sensazione che mi ha lasciato il libro della Sparaco è stata la rabbia, ma non certo per come si svolgono i fatti. Solo perché lì dentro si parla di un bambino che non vedrà mai la luce, di una donna che è devastata dal dolore, del suo uomo che è vulnerabile quanto la sua compagna… ma io ne ho visto solo delle immagini sbiadite. Questo mi fa rabbia. Poteva essere un buon libro. Forse lo è per altri, ma non per me. E di tutto si tratta fuorché di letteratura. “Nessuno sa di noi” mi ha lasciato l’amaro in bocca e una sola curiosità: vorrei comprendere quali sono stati i meccanismi che hanno condotto l’autrice alla finale del Premio Strega. Ho già detto che questa sarà la mia pietra di paragone con gli altri selezionati. Da 1 a 10, il mio personalissimo voto è un 5 scarso (perché in fondo sono sempre di manica larga). Ora passo agli altri e che Cthulhu abbia pietà di me… in fondo, non voglio credere che non si faccia più letteratura in Italia.