La storia della famiglia Cervi è narrata da Alcide. La scrive per onorare la memoria dei suoi sette figli ed è densa dei valori di pace, giustizia e libertà, con piccole perle di delicata saggezza: “Se volete capire la mia famiglia, guardate il seme. Il nostro seme è l’ideale nella testa dell’uomo. (…) Bisogna armarsi con la testa. Perché anche l’amore viene dall’utile, e c’è il buon governo quando l’amore per la Patria dà l’utile al cittadino e allo Stato”.
Nella prima parte la lettura scorre in modo sereno quasi a ricordare la vita semplice dei campi. Si avverte la stessa dolcezza che dà una carrellata di ricordi in cui tutto scorre come deve e niente appare fuori luogo.
Poi si avverte l’inquietudine, quella opprimente ansia di libertà che si scontra con la dittatura fascista, e anche la narrazione ne risente. Aldo fu il primo dei figli a finire in carcere per uno screzio con un milite. E qui la mia memoria non può che volare immancabilmente verso mio nonno materno che finì in carcere per il podestà del paese. Si erano cresciuti insieme ma avevano scelto di seguire strade diverse. Mio nonno decise di lavorare, ingrandire l’azienda di famiglia e l’allevamento di cavalli. Il podestà era rimasto con le mani in mano, fino a quando degli uomini in divisa gli cucirono addosso un ruolo che gli stava bene. Così, una sera d’estate in cui non aveva niente da fare, incontrò mio nonno che ritornava da lavoro. Gli intimò di scendere da cavallo, decise di pungolarlo come un animale da soma perché non capiva le ragioni per cui non aveva aderito alla stessa follia. Iniziò a chiedergli le generalità. “Nome”, e mio nonno stanco dopo una giornata di lavoro, gli rispose. “Cognome”, e rispose anche a questo iniziando a sentirsi montare dalla rabbia. “Età”… Si erano cresciuti insieme, fratelli di latte come succedeva spesso a quei tempi. E mio nonno non ci vide più. A labbra strette gli rispose di controllargli i denti, così come si fa con i cavalli. Bastò questo perché il suo “amico” lo mandasse in prigione.
Alcide Cervi descrive nel suo libro anche un altro aspetto fondamentale di quel tempo: l’innovazione tecnologica e la voglia di progredire da parte di alcuni. Con il loro tenace lavoro e grazie allo studio da autodidatti, i Cervi furono da contrasto all’arretratezza e allo sfruttamento nei campi, riuscendo a progredire anche nella scala sociale. Da mezzadri, ad affittuari ed infine proprietari.
Aldo, uno dei figli, stupiva i compaesani col suo sfavillante trattore Landini 50 hp, in cima al quale teneva un mappamondo: “… voleva far capire che il progresso tecnico si può fare se si guarda anche fuori del campo, se si hanno gli occhi sul mondo. Ma voleva dire, anche, che i lavoratori erano destinati al mondo, come il mondo è destinato ai lavoratori”.
E qui invece mi viene in mente il mio nonno paterno, invece. Era uno dei pochi in paese ad avere un titolo di studio che gli permise di essere a capo di una delle primissime centrali elettriche. Un uomo che usava la tecnica e la tecnologia come fosse un balocco animato dall’unica vera scintilla che è il fuoco della conoscenza. Lui, mio nonno, perse tutto perché non piegò la sua mente libera a una tessera che la rinchiudeva come fascista. Lui che fu costretto a “donare” il brevetto di una invenzione al fascismo con tante grazie e arrivederci. Lui che ha preferito essere libero.
Il libro di Alcide Cervi è ricco di aneddoti sull’attività antifascista, rischiosa e a tratti geniale e irriverente. La propaganda clandestina, la lotta agli ammassi, beni distribuiti agli operai per il sabotaggio della produzione industriale e azioni eclatanti, come il trancio del palo dell’alta tensione nella zona di Sant’Ilario, la cura dei feriti, la raccolta delle armi…
Nella notte del 25 novembre, i fascisti, sicuri di trovare i prigionieri a casa Cervi per una soffiata ricevuta, circondarono la casa appiccando il fuoco e arrestando i sette fratelli e il padre.
In carcere i Cervi furono percossi e torturati, ma rifiutarono l’arruolamento nella Guardia Nazionale Repubblicana, in cambio della loro salvezza.
“Abbiamo dato asilo ai perseguitati, da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, abbiamo conservato i figli alle madri, gli uomini alle spose. Abbiamo predicato la giustizia contro i prepotenti fascisti e ladri, contro i ricchi carnivori di fatica e di sangue”, rispose Alcide Cervi al prete che gli chiedeva le colpe commesse.
Ma c’erano dèi in terra per cui giustizia e fratellanza contavano meno delle zolle di terra riarsa. Non c’era un Dio che riuscisse ad avere il potere di guidare i pensieri e le azioni di molti… E così Alcide torna a casa, un giorno, credendo di poter presto riabbracciare i suoi sette figli. Ma non sapeva che il 28 dicembre 1943 erano stati giustiziati. Tutti e sette.
“Avevo 4 mucche, e adesso sono 54 capi di bestiame, con la produzione del grano che è salita a 5 volte quella del ’35. Eravamo mezzadri, pieni di debiti, e adesso abbiamo ancora debiti da scontare per 30 anni, ma il fondo è dei nipoti e delle nuore (…) in più abbiamo dato sette vite alla Patria. Se c’è bisogno di dare ancora la vita, i Cervi sono pronti, e qualcuno pure sopravviverà, e rimetterà tutto in piedi, meglio di prima. Ecco perché non ci fermeranno più”.
Mi scuserete se non ho inframmezzato questa recensione con ricordi personali, ma con un libro come questo, in un giorno come questo, è inevitabile lasciarsi andare alla profonda commozione e gratitudine. Se non ci fossero stati uomini come i Cervi io oggi non potrei esprimere liberamente la mia opinione, non potrei continuare a farmi prendere dal vortice della conoscenza. Se non ci fossero stati i miei nonni io ora sarei una persona più mite, non così testarda e volitiva, così contraria alle ingiustizie a qualsiasi livello. Se non ci fosse stata una dittatura a distruggere famiglie intere, con morti o soprusi, adesso non conosceremmo il vero valore della libertà.
Pensateci oggi. E non scordatelo gli altri giorni.